Famiglia: Cyprinidae

 

Nome comune: abramide

None scientifico: Abramis brama (Linneo, 1758)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie alloctona originaria dell’Europa centro-settentrionale ed orientale

 

 

Descrizione:

L’abramide, o brème, è un ciprinide di medio-grandi dimensioni (può raggiungere i 60 cm di lunghezza totale e i 3 Kg di peso corporeo), caratterizzato da un corpo alto e compresso, con dorso arcuato. La testa è di piccole dimensioni, con bocca protrattile, leggermente rivolta verso l’alto. La livrea varia dal verde bluastro del dorso all’argento dei fianchi  al bianco del ventre. La pinna dorsale e quella anale, assai sviluppata e con margine concavo, sono quasi opposte. La pinna caudale è marcatamente bilobata (il lobo inferiore è più sviluppato) con profilo a coda di rondine. Le pinne sono grigio-giallastre. Durante il periodo riproduttivo le pettorali e le ventrali assumono una bella tinta rossastra.

 

Comportamento:

L’abramide occupa nei corsi d’acqua d’origine la cosiddetta zona dell’abramide, sovrapponibile a quella della carpa, cioè le acque a lento decorso con fondi molli dei fiumi e dei canali di pianura, ricchi di vegetazione. Si riproduce nella tarda primavera, come la maggior parte dei ciprinidi, con deposizione sulla vegetazione sommersa in acque basse. La deposizione avviene nottetempo. La maturità sessuale è raggiunta piuttosto tardivamente, in genere tra il terzo ed il quinto anno di età. L’abramide è specie onnivora, con attitudini alimentari simili a quelle degli altri ciprinidi di fondo come la carpa. Si nutre sia di vegetali e di detrito organico che di invertebrati di fondo, in particolar modo anellidi oligocheti e chironomidi.

 

Distribuzione e diffusione:

Originaria dell’Europa centro settentrionale ed orientale, è stata introdotta nelle acque italiane da circa 20 anni.  Nella nostra provincia è piuttosto diffusa nel Po ed in tutte le acque dei canali di bonifica. Riveste un certo interesse per la pesca dilettantistica ed agonistica, mentre è assai scarso il suo valore alimentare. Una specie simile, ma di più modeste dimensioni, è la blicca (Blicca bjoerkna), che ha un occhio molto più grande rispetto a quello dell’abramide.

Famiglia: Cyprinidae

 

Nome comune: Barbo

Nome scientifico: Barbus barbus plebejus (Valenciennes, 1842)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: Specie autoctona

 

Descrizione:

La sottospecie Barbus barbus plebejus  possiede corpo affusolato, a sezione ovoidale, con dorso arcuato. La testa è appuntita, con bocca infera dotata di labbra carnose e due paia di barbigli. Le squame, cicloidi, sono di piccole dimensioni. La colorazione è variabile: solitamente il dorso appare di colore scuro (verde-bruno), mentre i fianchi sono argentei o dorati, con punteggiatura nera fine, presente  nelle popolazioni appenniniche ma non in quelle padane. Il ventre è bianco. Le pinne, ben sviluppate, sono di colore grigio-rossastro, con fine punteggiatura nera. La pinna caudale, marcatamente bilobata, presenta una profonda incisura. Le taglie massime raggiungibili sono di circa 60 cm di lunghezza totale e di 4 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie reofila, che colonizza le acque correnti dei corsi d’acqua di media e fondo valle, con fondali ghiaiosi (zona a barbo). Si nutre sul fondo di invertebrati acquatici, comportandosi in modo gregario. Gli adulti possono diventare occasionalmente predatori, alimentandosi anche di avannotti e di piccoli ciprinidi. La riproduzione (maturità sessuale tra il terzo ed il quarto anno di età) è primaverile (maggio-giugno) e avviene su letti di frega ghiaiosi. Si incrocia con il barbo canino (Barbus meridionalis), dando luogo ad ibridi interfecondi soprattutto dove le due specie coesistono (tratto inferiore della zona a salmonidi).

 

Distribuzione e diffusione:

Si tratta di una specie autoctona diffusa in gran parte delle acque della Penisola. In ambito regionale e provinciale il barbo è ben rappresentato negli affluenti di destra del Fiume Po, soprattutto nella fascia pedemontana (acque di categoria “C”), dove costituisce la parte preponderante della biomassa ittica. E’ protetto con un periodo di divieto di pesca dall’1/4 al 31/5 e con una misura minima di 16 cm . La specie è invece praticamente scomparsa da alcuni decenni dal Po e dal primo tratto degli affluenti, dove è stata sostituita da un’altra specie di origini alloctone, il barbo d’oltralpe o barbo europeo (Barbus barbus), che ne ha occupato stabilmente la nicchia. Si tratta di una specie che può  raggiungere taglie corporee assai maggiori rispetto a quelle del barbo ( 1 m di lunghezza totale e 8- 10 Kg di peso corporeo), in grado di creare problemi, sia di ibridazione che di competizione alimentare, nei confronti della forma indigena. Il barbo d’oltralpe è più slanciato rispetto al barbo, ha scaglie più grandi e livrea grigio-argentea uniforme, priva di macchie. Le pinne sono tendenzialmente rossastre.

Famiglia: Cyprinidae

 

Nome comune: Barbo canino

None scientifico: Barbus meridionalis (Risso, 1826)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie autoctona

 

 

Descrizione:

Il barbo canino è specie di più piccole dimensioni rispetto al barbo, con il quale si ibrida nelle zone di contatto (tratto pedemontano dei corsi d’acqua appenninici), originando ibridi dalle caratteristiche intermedie. In particolare, il barbo canino è caratterizzato da un corpo più tozzo, con macchie di grandi dimensioni sui fianchi e sulle pinne. I barbigli sono più corti rispetto a quelli del barbo. Le taglie massime raggiungibili sono di 25- 30 cm di lunghezza totale e 200- 250 g di peso corporeo.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie reofila, che colonizza le acque correnti dei corsi d’acqua di media e fondo valle, condividendo spesso l’habitat con il barbo e con i salmonidi (tratto inferiore delle zone “D”), dai quali viene  predato. Si nutre sul fondo di invertebrati acquatici, comportandosi in modo gregario. La riproduzione è primaverile (maggio-giugno) con deposizione delle uova su substrati ghiaiosi.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie è attualmente in forte contrazione, soprattutto per il degrado degli ambienti caratteristici (riduzione delle portate, presenza di sbarramenti, escavazioni in alveo), ma anche a causa della forte predazione esercitata dai salmonidi introdotti con i ripopolamenti in soprannumero. Anche in Regione ed in Provincia la specie appare minacciata, in quanto è rappresentata da sparuti contingenti localizzati nella porzione inferiore delle acque di categoria “D”(a salmonidi). Per tali motivi le Province di Parma, Reggio Emilia e Modena tutelano il barbo canino, specie di interesse comunitario (All. II, Direttiva Habitat), con divieto di pesca a tempo indeterminato. Il barbo canino riveste comunque scarsa importanza per la pesca dilettantistica.

Famiglia: Cyprinidae

 

Nome comune: carassio; carassio dorato

None scientifico: Carassius carassius e Carassius auratus (Linneo, 1758)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie esotica di origine orientale, introdotta in Italia in epoca romana, ampiamente acclimatata

 

Descrizione:

Specie sostanzialmente simili, Carassius carassius e Carassius auratus  sono ciprinidi caratterizzati da corpo tondeggiante e tozzo  a sezione ovale, simile a quello della carpa, dalla quale differiscono per l’assenza dei barbigli boccali. La livrea delle forme selvatiche è sostanzialmente similare nelle due specie: argentea o ramata sui fianchi, più scura sul dorso. Le forme ornamentali d’origine del carassio dorato hanno invece una colorazione rosso-dorata, tipica del pesce rosso d’acquario. Anche le dimensioni massime raggiungibili sono sostanzialmente simili: 35- 40 cm di lunghezza totale e ca. 1 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

Il carassio colonizza acque a lento decorso, con fondali limosi, tipiche dei canali e degli stagni di pianura, dove con la carpa costituisce spesso la parte preponderante della biomassa ittica. Si tratta di una specie in grado di tollerare basse concentrazioni di ossigeno e di adattarsi ad ambienti assai degradati. Tali caratteristiche lo rendono in grado di creare popolamenti stabili in numerosi corsi d’acqua di pianura, divenendo alle volte infestante. Si nutre di vegetali e di invertebrati acquatici. La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo ed il terzo anno di età. La frega è localizzata nei mesi di maggio e di giugno. Il maschio in tale periodo si ricopre di tubercoli nuziali.

 

Distribuzione e diffusione:

Diffuso in particolar modo nell’Europa dell’Est ed in Asia, il carassio presente in Italia con popolazioni  naturali in lento ma costante decremento, specie nel Bacino Padano. Tale fenomeno pare essere associato alla predazione esercitata nei suoi confronti dal siluro e alla competizione alimentare da parte del gambero rosso della Louisiana, che ne preda anche le uova. Il carassio è specie assai apprezzata a livello di pesca agonistica.

Famigia: Cyprinidae

 

Nome Comune:  Carpa

Nome scientifico:  Cyprinus carpio (Linneo, 1758)

Famiglia:  Cyprinidae

Ordine:  Cypriniformes

Origini:  Specie di origine orientale, introdotta in Italia in epoca romana, ampiamente acclimatata

 

Descrizione:

Ne esistono di varie forme.

Generalmente quelle selvatiche (carpa regina) sono più slanciate, mentre quelle allevate (carpa a specchi, carpa nuda, ecc.,) sono più tozze e corte. Anche la disposizione, la forma e la dimensione delle squame sono alquanto differenti nelle varie forme: di medie dimensioni e di forma regolare nella carpa regina; più grandi e disposte irregolarmente su dorso e fianchi (su una o più file) nella carpa a specchi; assenti nella carpa nuda. La livrea è variabile, ma quasi sempre tendente all’oro o all’argento, con dorso più scuro e ventre giallastro. La bocca, carnosa ed estroflessibile per grufolare sul fondale, è dotata di due paia di barbigli tattili. La pinna dorsale è lunga e sorretta dai primi raggi spiniformi; quella caudale, marcatamente biloba, è ampia e con bordi arrotondati.

Assai longeva,  la carpa può superare il metro di lunghezza totale e arrivare ad oltre 30 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

La carpa colonizza acque a lento decorso, con fondali limosi, anche dei grandi corsi d’acqua di pianura (zona a tinca).

Si tratta di una specie assai plastica e resistente, in grado di tollerare basse concentrazioni di ossigeno e di adattarsi anche agli ambienti salmastri. Viene spesso allevata in stagni e risaie per la lotta biologica contro le larve degli insetti dannosi. L’alimentazione è  onnivora, con preferenze vegetali. La maturità sessuale viene raggiunta tra il terzo ed il quarto anno di età, come per la maggior parte dei ciprinidi.

La frega è localizzata nei mesi di maggio e di giugno (periodo di divieto in Regione: 15/5-30/6).  La specie, pur non essendo minacciata, è tutelata con una misura minima legale di 30 cm .

 

Distribuzione e diffusione:

Diffusa in particolar modo nell’Europa dell’Est ed in Asia, la carpa è presente in Italia con popolazioni sia naturali che introdotte con i ripopolamenti. Assai apprezzata sotto l’aspetto alieutico, molto meno per quello gastronomico, la carpa è distribuita in modo consistente nei canali di bonifica del reggiano e nelle Casse d’espansione dei principali corsi d’acqua della provincia, anche con esemplari di notevoli dimensioni, che vengono insidiati soprattutto con la tecnica del carp fishing.

La specie, molto richiesta, è oggetto di ripopolamenti massicci da parte della provincia di Reggio Emilia, sia con esemplari giovani che adulti.

 

Molto meno presente una variante denominata carpa a specchi (cyprinus carpio specularis)

Ha origini da incroci effettuati negli allevamenti di carpe.

Si differenzia dalla carpa regina per il corpo più corto, più massiccio, la testa più corta, e per le caratteristiche grosse squame che la rivestono. Queste sono disposte a due o tre file sui fianchi, sul dorso e vicino alle branchie, hanno forma irregolare e sono simili a grosse placche lucenti, da cui deriva il nome di carpa a specchi.

Famiglia: Cyprinidae

 

Nome comune: cavedano

None scientifico: Leuciscus cephalus (Linneo. 1758)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Il cavedano è un ciprinide dal corpo allungato, a sezione ovoidale, ricoperto di grosse squame cicloidi. La testa è ampia con bocca grande, terminale, priva di denti, che sono invece presenti a livello del faringe. La livrea varia dal bruno del dorso al dorato-argentato dei fianchi, al bianco del ventre. Le pinne sono di color grigio scuro, la caudale è nettamente bilobata. Le dimensioni massime raggiungibili dalla specie sono di circa 55 cm di lunghezza totale e 3,5 Kg di peso corporeo. Queste taglie sono appannaggio degli esemplari presenti negli ecosistemi lacustri e nei maggiori corsi d’acqua del Nord Italia, mentre nei fiumi e nei torrenti appenninici difficilmente supera i 40- 45 cm e 1- 1,5 Kg .

 

Comportamento:

Si tratta di una specie reofila, che colonizza le acque correnti dei corsi d’acqua di media e fondo valle, con fondali ghiaiosi, condividendo l’habitat con il barbo e con la lasca. Tuttavia, grazie alla sua plasticità, la si rinviene anche nella parte terminale (foce) dei fiumi e nelle acque ferme dei laghi e dei canali. L’ampia valenza ecologica del cavedano gli permette di alimentarsi in modo alquanto eterogeneo: la sua dieta spazia infatti dai vegetali agli invertebrati di fondo, mentre gli individui adulti divengono abili cacciatori ittiofagi. Di comportamento gregario, fatta eccezione per gli esemplari più grandi, il cavedano si riproduce nella tarda primavera (da aprile a giugno) su fondali ghiaiosi. I maschi si ricoprono in tal periodo dei caratteristici tubercoli nuziali. La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo (maschi) ed il quarto (femmine) anno d’età.

 

Distribuzione e diffusione:

Si tratta di una specie autoctona comune in gran parte delle acque della Penisola. In ambito regionale e provinciale il cavedano è quasi scomparso dall’asta principale del Fiume Po, sostituito dall’alloctono aspio, mentre è ancora ben rappresentato negli affluenti di destra, soprattutto nella fascia pedemontana (acque di categoria “C”), dove con il barbo costituisce la parte preponderante della biomassa ittica. La provincia di Reggio Emilia, di Parma e di Modena lo tutelano con un periodo di divieto di pesca dal 15/3 al 30/6 di ogni anno e con una misura minima di 16 cm (normativa regionale). Il cavedano è specie assai apprezzata a livello dilettantistico, potendo essere insidiata con varie tecniche di pesca: dalla passata con il galleggiante alla pesca a mosca con la coda di topo, allo spinning con artificiali di medio-piccole dimensioni.

Famiglia: Clupeidae

 

 

Nome comune: Cheppia

None scientifico: Alosa fallax

Famiglia: Clupeidae

Ordine: Salmoniformes

Origini: specie autoctona.

 

Descrizione:

Corpo allungato, appiattito lateralmente, ricoperto di grosse squame cicloidi. Evidente la carena ventrale. La testa è appuntita, con mascellare prominente. L’occhio ha una palpebra adiposa trasparente. Manca la linea laterale.  La livrea è verde azzurro sul dorso, con riflessi iridescenti, argentea sui fianchi e sul ventre. La pinna caudale, marcatamente bilobata, presenta due squame allungate per ciascun lobo. Le taglie massime raggiungibili sono di circa 60 cm di lunghezza totale e di 3 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie anadroma pelagica, che si accresce in mare e risale poi i corsi d’acqua per la riproduzione in primavera, dove depone le uova su fondali ghiaiosi e sabbiosi. Gli adulti, dopo la frega, ritornano al mare, mentre i giovani rimangono in acqua dolce più a lungo. L’alimentazione è ittiofaga e a base di crostacei negli adulti, che non si nutrono durante la fase di risalita riproduttiva, mentre i giovani si alimentano soprattutto di invertebrati planctonici e bentonici.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie un tempo comune in gran parte del Bacino del Po, che risaliva in grandi contingenti per andare a riprodursi sui ghiareti degli affluenti sia di destra che di sinistra, soffre attualmente della presenza di sbarramenti lungo le aste fluviali e delle asciutte estive che ne deprimono le possibilità riproduttive. Nella nostra Provincia è segnalata in primavera nel tratto terminale del Torrente Enza, ma assai più numerosa risale il basso Taro (PR). La cheppia è un specie assai apprezzata dai pescatori per la sua violenta difesa, prodiga di salti ed acrobazie. Viene insidiata soprattutto a spinning con piccoli ondulanti e a mosca con vistosi streamer. Per la sua protezione, essendo la specie a rischio, la Regione Emilia-Romagna ne vieta la detenzione a tempo indeterminato.

Famiglia: Astacidae

 

Nome comune: gambero di fiume

None scientifico: Austropotamobius pallipes o Astacus pallipes (Lerebouillet)

Famiglia: Astacidae

Origini: specie autoctona

 

 

Descrizione:

Similare al più grande Astacus astacus, si distingue da questo per la presenza di una sola coppia di denti post-orbitali e per la colorazione biancastra della parte ventrale degli arti. La livrea è assai variabile, essendo fortemente condizionata dal mimetismo, tuttavia è solitamente uniforme, tendente al marrone, al verde oliva o al grigio piombo. Le dimensioni massime sono di circa 12 cm di lunghezza totale (dall’apice del rostro al telson) e di 90 g di peso corporeo.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie tipicamente legata alle acque correnti torrentizie, soprattutto dei piccoli fossi e riali montani con fondali ricchi di detrito vegetale, non disdegnando tuttavia di colonizzare piccoli specchi lacustri: tipico nella nostra Provincia è il caso del Lago Calamone e dei Laghi Cerretani. Austropotamobis pallipes è assai esigente, non sopportando temperature elevate dell’acqua (˃ 25°C) e valori di ossigeno disciolto  inferiori al 60-130 % di saturazione. I valori di pH ottimali sono compresi tra 6,8 e 8, mentre le acque devono avere concentrazioni di ioni Calcio disciolti piuttosto elevate. L’alimentazione del gambero di fiume è più zoofaga (larve di insetti acquatici, molluschi, anellidi, piccoli pesci, anfibi e crostacei bentonici) rispetto a quella di altri gamberi, in particolar modo negli individui giovani, mentre gli adulti non disdegnano il detrito vegetale, alghe e foglie cadute in acqua. La maturità sessuale viene di solito raggiunta al 3°-4° anno di età, con accoppiamento autunnale e produzione di un basso numero di uova (50-100) che schiuderanno la primavera successiva.

 

Distribuzione e diffusione:

Il gambero di fiume è specie a forte rischio in numerosi ecosistemi italiani, essendo considerata “specie rara” dal rapporto dell’IUCN. I motivi della sua rarefazione sono molteplici, spaziando dal peggioramento delle condizioni ecologiche degli habitat elettivi alle patologie che ne hanno decimato i contingenti naturali, come nel caso dell’afanomicosi o peste del gambero. La Regione Emilia-Romagna ha da tempo emanato un provvedimento di tutela nei confronti della specie, che ne vieta la pesca a tempo indeterminato. Provvedimenti atti alla sua reintroduzione in ambito naturale sono già operativi, mediante allevamento e produzione di stocks da ripopolamento in piccoli impianti di valle.

 

Famiglia: Cambaridae

 

Nome comune: gambero rosso della Louisiana

None scientifico: Procambarus clarkii (Girard)

Famiglia: Cambaridae

Origini: specie aliena.

 

Descrizione:

Procambarus clarkii è un Crostaceo Decapode appartenente alla famiglia Cambaridae. Si tratta di una specie originaria delle paludi della Louisiana, tra le più allevate al mondo ai fini alimentari. Raggiunge dimensioni importanti: sino a 20 cm di lunghezza totale tra apice del rostro e telson. Il gambero rosso è dotato di robuste e sviluppate chele dal bordo interno tagliente e seghettato, con le quali attacca e produce vistose ferite nei pesci. Le chele vengono pure utilizzate  per scavare profonde tane nel substrato. La livrea è variabile, ma tende comunque al rosso scuro, da cui il nome di gambero rosso. Il dimorfismo sessuale è evidenziato per il fatto che i maschi hanno i primi due paia di arti addominali modificati in organi copulatori. Anche le chele sono più robuste e sviluppate nei maschi.

Comportamento:

Si tratta di una specie infestante, caratterizzata da una intensa attività fossoria. Scava infatti profonde gallerie negli argini, nei quali causa cedimenti, e sul fondo dei canali asciutti, all’interno delle quali sverna resistendo a temperature inferiori anche a 0° C. Per contro tollera temperature assai elevate e bassissime concentrazioni di ossigeno disciolto (˂ 2 mg/l). Inoltre sopravvive al prosciugamento dei canali, interrandosi o trasferendosi altrove, essendo in grado di sopravvivere fuor d’acqua per diverse ore. Infine attacca la fauna ittica, pinzando i pesci con le sue robuste chele soprattutto durante il periodo riproduttivo, ed è portatore sano dell’Afanomicosi o “peste del gambero”, malattia alla quale sono recettivi tutti gli Astacidi autoctoni, compreso il gambero di fiume (Austopotamobius pallipes). L’alimentazione di Procambarus clarkii è onnivora, con prevalenza vegetariana negli adulti. La riproduzione avviene almeno un paio di volte alle nostre latitudini, con la produzione di un basso numero di uova (400 circa), ma con un notevole successo demografico.

 

Distribuzione e diffusione:

In Italia la specie è stata segnalata per la prima volta nel 1992 in acque piemontesi, in seguito alla fuga da un allevamento. Successivamente si è diffusa nelle acque del Centro-Nord, soprattutto nei canali della bassa Pianura Emiliana, mentre è assai meno frequente nei corsi d’acqua di sinistra orografica del Po. E’ pure presente in laghi (Massaciuccoli) e laghetti  dell’Italia centrale. In provincia di Reggio Emilia la specie è diffusa, con densità fluttuanti, in quasi tutti i canali dei Consorzi Idraulici di Bonifica. Già da alcuni anni sono stati localmente attivati piani di controllo e di contenimento delle popolazioni, sia tramite l’ordinanza di divieto del trasporto vivo degli animali pescati, sia mediante le catture effettuate durante gli svasi.  Anche l’impiego di metodi biologici, come l’utilizzo e la reintroduzione di specie ittiche che si nutrono naturalmente dei vari stadi vitali di questo Crostaceo (anguilla, luccio, persico trota, pesce gatto, ecc.,) ha fornito risultai incoraggianti.

Famiglia: Gobiidae

Nome comune: ghiozzo padano, ghiozzo di fiume

None scientifico: Padogobius martensi (Günther, 1861)

Famiglia: Gobiidae

Origini: specie autoctona.

 

Descrizione:

Il ghiozzo padano o ghiozzo di fiume è un pesce di piccole dimensioni (lunghezza massima: 8- 10 cm ), con corpo cilindrico ricoperto di piccole squame ctenoidi. Assente la linea laterale. La testa è grande, con bocca terminale dotata di labbra carnose e mascella inferiore prominente. Gli occhi sono grandi e disposti in posizione dorsale. La livrea varia dal bruno-marrone  al verde oliva, con bande verticali scure, mentre il ventre è giallastro. La pinna dorsale è sdoppiata e la parte anteriore, più breve, presenta una vistosa macchia scura. La pinna caudale ha il bordo arrotondato  e convesso ed è punteggiata di nero. Le pinne ventrali sono unite a formare una sorta di ventosa che gli permette di ancorarsi al substrato.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie bentonica e gregaria, a limitata mobilità, per cui è molto sensibile agli episodi di inquinamento acuto. Colonizza acque limpide a debole corrente, con fondali sassosi e ghiaosi, soprattutto della fascia pedemontana, ma anche dei corsi di pianura. Si alimenta di piccoli invertebrati bentonici e di vegetali. La riproduzione, tardo primaverile, avviene con la deposizione di uova adesive che vengono poi accudite dal maschio.

 

Distribuzione e diffusione:

In Italia la specie è diffusa soprattutto nelle acque del Centro-Nord. In Regione, pur non avendo alcun riscontro per la pesca sportiva, il ghiozzo padano è protetto con divieto di pesca a tempo indeterminato dato che i suoi contingenti, a causa del degrado ambientale, sono sempre più ridotti. Una specie similare, parimenti protetta, è il panzarolo o ghiozzo dei fontanili (Knipowitschia punctatissima), endemica della zona dei fontanili e delle risorgive, ancora oggi presente nell’area dei Fontanili di Corte Valle Re in Provincia di Reggio Emilia.

Famiglia: Cyprinidae

Nome comune: gobione

None scientifico: Gobio gobio (Linneo,1758)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie autoctona.

 

 

Descrizione:

Il gobione è specie di piccole dimensioni –raramente può arrivare a 20 cm- dal comportamento gregario, che vive sul fondo alla ricerca di cibo. La testa è grande e corta, molto simile a quella del barbo, con apertura orale infera, provvista di labbra carnose e di 2 barbigli. Il corpo è affusolato, ricoperto di squame cicloidi piuttosto grandi. La livrea varia, ma solitamente il dorso è bruno-verdastro, i fianchi argentei ed il ventre biancastro. Sopra la linea laterale sono presenti delle grosse macchie scure. Le pinne dorsale e caudale, quest’ultima profondamente incisa, hanno una fine macchiettatura.

Comportamento:

Si tratta di una specie ad ampia valenza ecologica, che colonizza le acque moderatamente correnti e poco profonde dei corsi d’acqua di media e fondo valle, condividendo spesso l’habitat con il barbo.  Lo si ritrova anche negli ambienti di risorgiva. Si alimenta prevalentemente sul fondo, di larve di insetti, crostacei, anellidi e, occasionalmente, anche di uova di altri pesci. La maturità sessuale viene raggiunta al secondo-terzo anno dai maschi, un anno dopo dalle femmine. La riproduzione avviene  su fondali ghiaiosi e sabbiosi tra la metà di aprile e la metà di giugno. Le femmine depongono da 500 a 20.000 uova, a seconda della taglia. Il maschio diviene più scuro durante il periodo riproduttivo e di copre di tubercoli nuziali.

Distribuzione e diffusione:

Distribuita in tutta l’Europa e l’Asia centrale, La specie è indigena nell’areale padano, tuttavia non è frequente, anche se le sue popolazioni tendono ad essere sottostimate a causa delle abitudini che tendono a sfuggire all’osservazione e allo scarso interesse per la pesca sportiva. In Regione è abbastanza diffusa nella fascia pedecollinare e nelle acque di risorgiva. Attualmente non pare correre eccessivi rischi, anche se risente negativamente delle modificazioni antropiche dei corsi d’acqua, come le canalizzazioni e i prelievi di inerti.

Famiglia: Cyprinidae

Nome comune: lasca

None scientifico: Chondrostoma genei (Bonaparte, 1845)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Corpo allungato ed affusolato, a sezione ovoidale, ricoperto di piccole squame cicloidi. La testa è piccola con bocca inferiore, priva di denti, dotata di labbra cornee dure. Il mascellare è prominente. La livrea è grigio-bluastra sul dorso, grigio-argentea sui fianchi, percorsi longitudinalmente da una banda scura, e bianca sul ventre. Le pinne sono grigio-giallastre, ma assumono una bella colorazione rosso-arancio in epoca riproduttiva. La lasca difficilmente supera i 25- 30 cm di lunghezza totale.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie reofila, che colonizza le acque correnti dei corsi d’acqua di media e fondo valle, con fondali ghiaiosi e sassosi, dove condivide l’habitat con il barbo, con il cavedano e con il vairone. Il suo comportamento è tipicamente gregario: in periodo riproduttivo (primaverile) risaliva in forti contingenti dal Po per raggiungere le aree di frega, situate nei ghiarili degli affluenti sia di destra che di sinistra del Grande Fiume. Durante la frega i maschi si ricoprono di tubercoli nuziali, mentre le pinne divengono di un bel colore rosso-arancio. L’alimentazione è onnivora, con prevalenza di vegetali e di invertebrati bentonici.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie, un tempo comune in gran parte del Bacino del Po, soffre attualmente della presenza di sbarramenti lungo le aste fluviali e delle asciutte estive che ne deprimono le possibilità riproduttive. Anche la predazione da parte degli uccelli ittiofagi ha contribuito alla sua rarefazione. Spesso gli sparuti contingenti residui sono confinati nelle acque dei corsi collinari o montani, in Regione al limite tra le zone “C” e “D”. La lasca è specie d’interesse comunitario (All. II, Dir. Habitat)  e può essere considerata una specie “target” di buona qualità ambientale. Le Province emiliane di Parma, Reggio Emilia e Modena, data la sua rarefazione, la tutelano con il provvedimento di divieto di pesca a tempo indeterminato.

Famiglia: Esocidae

Nome comune: luccio

None scientifico: Esox lucius (Linneo, 1758)

Famiglia: Esocidae

Ordine: Salmoniformes

Origini: specie autoctona, diffusa in gran parte dell’Europa

 

Descrizione:

Il luccio è specie predatrice ittiofaga situata all’apice delle catene trofiche acquatiche, in grado di raggiungere dimensioni assai rilevanti: fino ad oltre 1,30 m di lunghezza totale e 25 Kg di peso corporeo. Il corpo è allungato e cilindrico, con testa grande e bocca ampia, terminale, conformata a “becco d’anatra”, armata di oltre 700 denti. La pinna dorsale è molto arretrata, opposta all’anale. La pinna caudale, assai sviluppata per favorire gli scatti brevi, è marcatamente bilobata. La livrea, mimetica, è differente negli esemplari “nostrani” rispetto a quelli continentali europei. Mentre i primi sono caratterizzati dalla presenza  di linee longitudinali od oblique ramificate (marmorizzature) di colore verdastro sui fianchi argentei, i secondi presentano macchie ovoidali di colore giallo o crema su fondo verdastro. Il dorso è scuro ed il ventre biancastro, mentre le pinne sono giallastre con sfumature rossastre.

 

Comportamento:

Il luccio è il tipico predatore delle acque del piano, una volta frequente negli stagni, nelle anse fluviali, nei bozzi, ma anche nei canali e nei fiumi, dove frequenta soprattutto le zone di calma ricche di ostacoli per tendere l’agguato alle proprie prede. E’ presente anche nei bacini lacustri, dove raggiunge le maggiori dimensioni. La sua arma migliore è la vista, della quale si avvale per intercettare le prede in acque limpide, preferite dall’Esocide. La riproduzione avviene in periodo tardo invernale e primaverile (febbraio-aprile) nelle acque limpide dei fontanili e delle risorgive  ricche di vegetazione. Le uova, adesive, schiudono in breve tempo e le larve, anch’esse adesive, iniziano presto ad alimentarsi di invertebrati planctonici. Poi, raggiunti i 4- 5 cm , iniziano già a predare piccoli pesci. In seguito gli accrescimenti sono assai rapidi e l’alimentazione del luccio diviene quasi esclusivamente ittiofaga, anche se non disdegna predare piccoli mammiferi, uccelli acquatici, anfibi e rettili. La maturità sessuale viene raggiunta al secondo- terzo anno dai maschi ed al quarto dalle femmine, quasi sempre a taglie corporee superiori ai 45- 50 cm.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie è ben diffusa nell’Europa settentrionale e centro-orientale. Le popolazioni italiane appaiono invece in forte contrazione, soprattutto a causa del degrado dell’ambiente riproduttivo e di accrescimento (lanche, bozzi, fontanili) e della rarefazione della vegetazione acquatica (fascia a canneto) indispensabile zona di rifugio e di caccia. Il luccio risente inoltre della predazione esercitata sui giovanili dagli uccelli ittiofagi e della competizione territoriale da parte del siluro. In Provincia di Reggio Emilia, la specie è stata introdotta con successo nel Lago Pranda, mentre in pianura sono pochissimi gli ambienti elettivi ancora in grado di ospitarla (alcune cave, casse d’espansione fluviali, canali di scarico dei fontanili). Il luccio è localmente tutelato con un periodo di divieto di pesca dal 15/12 al 15/05 e con una misura minima di 60 cm . Inoltre è possibile trattenerne un solo esemplare al giorno. La specie è molto apprezzata per la sua notevole combattività e viene insidiata sia con il pesce vivo o morto sia, più sportivamente, a spinning con artificiali di medie-grandi dimensioni (ondulanti, rotanti, minnow ed esche siliconiche) ed attrezzature robuste corredate dall’immancabile cavetto in acciaio per evitare che la lenza venga tranciata dall’affilata dentatura.

Famiglia: Percidae

Nome comune: Lucioperca o Sandra

None scientifico: Stizostedion lucioperca (Linneo, 1758)

Famiglia: Percidae

Ordine: Perciformes

Origini: Specie alloctona originaria dell’Europa settentrionale e centro-orientale, è stata introdotta agli inizi del secolo scorso nel Bacino del Fiume Tevere. Attualmente risulta favorevolmente acclimatata anche nel Bacino Padano.

 

Descrizione:

Si tratta di una specie predatrice ittiofaga in grado di raggiungere dimensioni rilevanti: fino ad oltre 1 m di lunghezza totale e 15 Kg di peso corporeo. Il corpo è allungato e affusolato, contraddistinto dalla presenza di bande verticali scure come nel persico reale, che tendono a sfumare negli individui più vecchi. Il dorso è verde scuro, mentre i fianchi sono argentei ed il ventre bianco. Una fitta macchiettatura è presente sulla pinna dorsale (sdoppiata come in tutti i Perciformi: la prima parte sorretta da raggi duri ed acuminati; la seconda da raggi molli a parte i primi tre) e su quella caudale, marcatamente bilobata. Il capo è allungato ed appuntito, con bocca ampia, dotata di numerosi piccoli denti e di 4 canini (2 mascellari e 2 mandibolari) assai appuntiti e sviluppati.

 

Comportamento:

Il lucioperca predilige le acque fluenti a lento decorso, con fondali sabbiosi e fangosi dei maggiori corsi d’acqua, tuttavia lo si ritrova con frequenza anche nei laghi e nei canali di pianura. E’ specie piuttosto esigente e delicata, in quanto non tollera basse concentrazioni di ossigeno disciolto. Per tali motivi, anche in ambienti eutrofizzati tende a posizionarsi in corrispondenza di manufatti o chiaviche, dove è maggiore l’ossigenazione per effetto della turbolenza. Si tratta di un ottimo “cacciatore” dalle abitudini gregarie da giovane, isolandosi poi quando diviene adulto. L’attività di caccia  si esalta nelle ore notturne e anche in acque torbide, grazie all’efficacia del suo apparato visivo. La predazione avviene soprattutto a scapito di Ciprinidi di piccole dimensioni (alborella, pseudorasbora, triotto, ecc.,): per tale motivo è un forte competitore alimentare nei confronti del persico reale. La riproduzione è primaverile (aprile-maggio) e la deposizione delle uova avviene in acque abbastanza profonde, su substrati vegetali (nido) assemblati dal maschio.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie è particolarmente diffusa nell’Europa settentrionale e centro-orientale. Attualmente le popolazioni italiane del Bacino Padano appaiono i fase di espansione, con accrescimenti paragonabili a quelli dei paesi d’origine.

Nei canali di bonifica emiliani, pur frequente, la specie non raggiunge in genere taglie elevate, eccezioni a parte, a causa della forte pressione di pesca a cui è sottoposta in  assenza di norme protettive regionali.

Il lucioperca è infatti assai apprezzato sotto l’aspetto alieutico, anche per la bontà delle sue carni, per cui anche gli esemplari di piccole dimensioni, sessualmente immaturi (maturità tra il terzo ed il quinto anno di età), vengono sistematicamente trattenuti.

Viene insidiato soprattutto con le tecniche del pesce morto, anche manovrato, e a spinning con artificiali di medie-piccole dimensioni.

Famiglia: Percidae

Nome comune: persico reale

None scientifico: Perca fluviatilis  (Linneo, 1758)

Famiglia: Percidae

Ordine: Perciformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Corpo allungato, a sezione ovale, ricoperto di squame ctenoidi. La livrea è piuttosto vistosa: il dorso è scuro, i fianchi verdastri ed il ventre biancastro. Sui fianchi sono presenti diverse bande verticali scure di forma triangolare. La pinna dorsale, sdoppiata (la prima parte sorretta da raggi spinosi, la seconda da raggi molli) è ben sviluppata. La dorsale e le pinne pettorali sono giallo-verdastre, mentre le ventrali, l’anale e la caudale, marcatamente biloba, hanno un bel colore rosso-arancio. La testa è piccola, mentre la bocca è ampia, da predatore, e armata di piccoli denti. L’opercolo branchiale termina posteriormente con una robusta ed appuntita spina. La specie raggiunge taglie massime (nei grandi laghi) di 60 cm e di 3,5 Kg .

 

Comportamento:

La specie colonizza le acque ferme dei laghi o a lento decorso dei fiumi di pianura, purché ben ossigenate. Non è raro trovarla anche in canale, se il fondale è sabbioso o ghiaioso, e nelle casse d’espansione fluviale. La riproduzione è primaverile e avviene generalmente nei mesi di aprile e di maggio, con la deposizione di uova nastriformi adesive, che si fissano a substrati come rami, legnere e tronchi del fondo.  La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo (maschi) ed il quarto anno (femmine) di età. Il regime alimentare del persico reale è marcatamente ittiofago: si tratta di un forte predatore che da adulto di ciba quasi esclusivamente di pesci di piccole dimensioni, mentre da giovane nella sua dieta si rinvengono anche invertebrati acquatici, insetti e crostacei. Le sue abitudini sono in genere gregarie, ma gli esemplari adulti divengono solitari e territoriali. In casi estremi può divenire cannibale.

 

Distribuzione e diffusione:

Un tempo diffuso in tutto il Bacino Padano, il persico reale è attualmente in forte contrazione in tutto il territorio regionale, sia a causa del degrado ambientale che della competizione trofica e territoriale esercitata nei suoi confronti da specie aliene, quali il lucioperca, specie ittica  che ha una dieta del tutto sovrapponibile. In Provincia lo si rinviene nelle Casse d’Espansione Fluviale del Secchia e, occasionalmente, in alcuni canali di bonifica (Allacciante Cartoccio). La specie è assai ricercata ed apprezzata a livello gastronomico.

Famiglia: Centrarchidae

Nome comune: persico sole

None scientifico: Lepomis gibbosus  (Linneo, 1758)

Famiglia: Centrarchidae

Ordine: Perciformes

Origini: specie alloctona originaria dell’America settentrionale

 

 

Descrizione:

Corpo tondeggiante, appiattito sui fianchi, ricoperto di piccole squame ctenoidi. La livrea è vistosa e variegata: il dorso è scuro, i fianchi verdastri ed il ventre giallo-arancio. Marmorizzature di colore bruno-arancio sono presenti sui fianchi e sulla testa, che ha una tonalità di fondo di colore blu metallico. Gli opercoli presentano posteriormente una protuberanza con una macchia nera orlata di rosso ed arancio. La bocca è piccola e terminale. Le pinne sono giallastre. La dorsale, assai sviluppata, è di colore grigiastro. La pinna caudale (bilobata) presenta una leggera incisura. Le dimensioni massime sono ridotte: 15- 20 cm di lunghezza totale e 150- 200 g di peso corporeo.

 

Comportamento:

La specie, marcatamente fitofila e gregaria, colonizza acque ferme o a lento decorso, spesso stagnanti (zona  a tinca). La riproduzione è primaverile e avviene generalmente nei mesi di aprile e di maggio. Il maschio scava un nido in acque basse dove vengono deposte le uova dalla femmina e si dedica poi alle cure parentali. La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo ed il terzo anno di età. Il regime alimentare è improntato soprattutto alla predazione di larve di invertebrati acquatici, di piccoli crostacei, di anellidi e di molluschi, ma non vengono disdegnati neppure le uova e gli avannotti di altre specie ittiche.

 

Distribuzione e diffusione:

Originario dell’America settentrionale, il persico sole è stato introdotto in Italia agli inizi del ‘900 al pari di altri connazionali come il pesce gatto, il persico trota e la trota iridea.  Un tempo diffuso e comune in tutto il bacino del Fiume Po, attualmente ha una distribuzione meno omogenea. In Regione la specie è quasi scomparsa dal corso principale e da numerosi canali, mentre è ancora piuttosto diffusa in alcuni laghetti collinari e nelle casse d’espansione fluviale. Ha carni saporite e viene pescato soprattutto a livello dilettantistico dai principianti.

Famiglia: Centrarchidae

Nome comune: Persico Trota o Black Bass

None scientifico: Micropterus salmoides (Lacèpéde, 1802)

Famiglia: Centrarchidae

Ordine: Perciformes

Origini: Specie alloctona originaria dell’America settentrionale

 

Descrizione:

Corpo massiccio e tozzo, ricoperto di squame ctenoidi. La testa è grande, con bocca ampia –da cui il nomignolo di “boccalone” o “boccalarga”-  provvista di numerosi piccoli denti villiformi, disposti anche su palato e vomere. La mandibola è prominente.  La livrea varia dal verde bottiglia del dorso al verde chiaro dei fianchi al bianco-giallastro del ventre. Sui fianchi sono spesso presenti delle macchie scure di grandi dimensioni che tendono a ridursi negli esemplari più vecchi. Le pinne sono robuste, con la dorsale divisa in due parti: l’anteriore sorretta da raggi spinosi; la posteriore da raggi molli. La pinna caudale ha il margine poco inciso, quasi verticale. Le taglie massime raggiungibili sono di circa 70- 80 cm di lunghezza totale e 8- 10 Kg di peso corporeo nei paesi d’origine, mentre nelle acque italiane il persico trota difficilmente  supera i 60 cm e i 3,5 Kg.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie predatrice, che colonizza acque a lento decorso, spesso stagnanti (lanche, stagni e cave) ricche di vegetazione riparia (canneto). Tollera basse concentrazioni di ossigeno disciolto ed elevate temperature dell’acqua, tuttavia necessita della vegetazione acquatica come zona di caccia e di rifugio. La riproduzione ha luogo in aprile-maggio in acque basse. Il maschio scava un nido di 60- 70 cm di diametro dove la femmina depone le uova che saranno poi accudite dal maschio, al quale sono devolute pure le cure nei confronti della prole. La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo ed il terzo anno di età. Il persico trota è un predatore, che si nutre di specie ittiche di medio-piccole dimensioni (scardole, alborelle, triotti, cobiti, ecc.,) che ne condividono l’habitat. Nella sua alimentazione rientrano anche piccoli rettili, anfibi, libellule. In passato è stato ritenuto responsabile di fenomeni di competizione nei confronti di altri predatori autoctoni, quali il luccio ed il persico reale, rispetto ai quali tende tuttavia a sovrapporre solo in parte la dieta.

 

Distribuzione e diffusione:

Originario dell’America settentrionale, il persico trota o black bass (persico nero) è stato introdotto in Italia agli inizi del ‘900, acclimatandosi presto in tutto il Bacino Padano e, successivamente, anche nel resto d’Italia. Attualmente la specie sta attraversando una fase di generale contrazione, soprattutto al Nord, dove le sue popolazioni risentono dell’azione predatoria esercitata dal siluro e dagli uccelli acquatici, favorita dalla rarefazione della vegetazione acquatica e spondale, indispensabili zone di rifugio e di accrescimento. D’altra parte anche la progressiva eutrofizzazione degli ambienti, con riduzione del grado di trasparenza delle acque, ha favorito il tracollo di questa e di altre specie predatrici (luccio), che usano la vista come strumento fondamentale nella caccia. Nelle acque regionali e provinciali il persico trota è presente nel tratto terminale degli affluenti del Po, nelle lanche, nelle Casse d’espansione fluviali, in alcune ex cave e nei laghetti collinari, mentre è quasi scomparso nelle acque dei canali di bonifica. La specie non è tutelata essendo alloctona e questo è un peccato, in quanto è assai apprezzata sia sotto l’aspetto alieutico che alimentare. Viene insidiata sia con esca viva sia, soprattutto, con gli artificiali, dando luogo ad un vero e proprio fenomeno di ricerca da parte di appassionati che, organizzati in club ed associazioni, disputano gare e tornei specifici con uso di imbarcazioni e natanti particolari (belly boat), promuovendo la salvaguardia dell’ambiente e della specie (rilascio delle catture).

Famiglia: Ictaluridae

Nome comune: pesce gatto

None scientifico: Ictalurus melas  (Rafinesque, 1820)

Famiglia: Ictaluridae

Ordine: Siluriformes

Origini: specie alloctona originaria dell’America settentrionale

 

Descrizione:

Corpo nudo, privo di squame, tozzo e con profilo del dorso arcuato. La testa è grande ed appiattita, con bocca mediana ampia provvista di 4 paia di barbigli. La livrea è verde oliva sui fianchi, più scura sul dorso e di un bel giallo oro sul ventre. Le pinne sono scure con tonalità rossastre. La dorsale e quelle pettorali sono caratterizzate per avere il primo raggio (spinoso) acuminato. Presente anche una pinna adiposa, come nei salmonidi.  La pinna caudale ha il margine posteriore poco inciso. Le taglie massime sono di circa 40 cm di lunghezza totale e di 1,5 kg di peso corporeo, per altro difficilmente raggiungibili nelle nostre acque interne.

 

Comportamento:

Il pesce gatto è specie tipica di acque stagnanti o a lento decorso, con fondali molli, fangosi. Si adatta bene anche a condizioni estreme, in acque calde e povere di ossigeno. Per tali motivi, oltre che per la sapidità delle sue carni, viene allevato in stagni di pescicoltura estensiva. La specie è gregaria e con attitudini crepuscolari. Il pesce gatto è un attivo predatore che si nutre sia di invertebrati acquatici, di crostacei e di molluschi che di uova e di avannotti di altre specie ittiche. La riproduzione è tardo primaverile, con temperature dell’acqua superiori a  20°C . La deposizione delle uova avviene in buche scavate dalla femmina. Le uova sono gelatinose e schiudono in pochi giorni, dopodichè le cure parentali sono a carico del maschio, che accompagna amorevolmente la classica nuvoletta nera di avannotti per alcuni giorni.

 

Distribuzione e diffusione:

Originario dell’America settentrionale, il pesce gatto è stato introdotto in Italia verso gli inizi del ‘900. Un tempo diffuso e comune in tutto il bacino del Fiume Po, ha subito successivamente un certo ridimensionamento negli anni 90, a causa di una malattia virale che ne ha decimato i contingenti, sia in ambiente naturale che in allevamento. Attualmente la specie sta recuperando terreno nelle acque regionali, soprattutto nei canali vegetati che mantengono un minimo battente idrico invernale, protettivo nei confronti della predazione da parte degli uccelli ittiofagi. Il pesce gatto è localmente assai apprezzato dai pescatori e la sua presenza concorre al contenimento di specie invasive e dannose come il crostaceo decapode Procambarus clarkii, di cui si nutre.

 

Specie similare al pesce gatto, ma di maggiori dimensioni, è il pesce gatto punteggiato (Ictalurus puncatus), noto anche come pesce gatto americano o channel cat fish. Si tratta di una specie alloctona originaria degli Stati Uniti, introdotta abbastanza recentemente in Italia ai fini commerciali. Più slanciato ed affusolato rispetto al pesce gatto “nostrano”, è caratterizzato da una livrea grigio-bluastra, più scura sul dorso e più chiara sui fianchi, con una punteggiatura nera rada, più evidente negli esemplari giovani. Raggiunge taglie elevate: fino ad oltre 1 m di lunghezza totale e 10 Kg di peso corporeo. Il pesce gatto punteggiato è un forte predatore ed un abile nuotatore, che si nutre sia di vegetali che di prede vive. Si riproduce nella tarda primavera e la maturità sessuale è spesso tardiva (dopo il V anno di età). E’ apprezzato per la strenua difesa che oppone alla cattura. La sua presenza in ambiente naturale è del tutto occasionale, mentre è frequente nei laghetti per la pesca sportiva.

Famiglia: Cyprinidae

Nome comune: pseudorasbora

None scientifico: Pseudorasbora parva (Schlegel, 1842)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie alloctona originaria dell’Asia orientale

 

Descrizione:

Si tratta di una specie di piccole dimensioni (10- 15 cm ), caratterizzata da corpo fusiforme ricoperto di squame cicloidi di dimensioni medio-grandi. La livrea è argentea, con riflessi bluastri e violacei. La testa ha il margine appuntito, rivolto all’insù. Le pinne sono grigio-giallastre: la caudale è marcatamente bilobata.

 

Comportamento:

La pseudorasbora occupa una nicchia ecologica sovrapponibile a quella dell’autoctona alborella, alla quale si è sostituita in numerosi ecosistemi padani, essendo specie assai più tollerante. Vive in gruppi numerosi nelle acque di pianura dei canali e dei laghi, in prossimità della vegetazione delle sponde, dove si nutre di vegetali e di detrito organico. La riproduzione è tardo primaverile, con deposizione sulla vegetazione. I maschi si ricoprono di tubercoli nuziali durante la fase riproduttiva.

 

Distribuzione e diffusione:

Originaria dell’Asia orientale, la pseudorasbora è stata introdotta di recente nelle acque interne italiane, dove si è perfettamente acclimatata in seguito a semine non controllate  ed al suo utilizzo come esca viva per i predatori. La specie  si espansa a detrimento di altre specie autoctone di piccole dimensioni (alborella, triotto), anche se le sue popolazioni sono soggette a forte predazione da parte di specie ittiofaghe aliene come il lucioperca.

Famiglia: Salmonidae

Nome comune: Salmerino alpino

None scientifico: Salvelinus alpinus (Linneo,1758)

Famiglia: Salmonidae

Ordine: Salmoniformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Corpo allungato ed affusolato, appiattito lateralmente, ricoperto di piccole squame cicloidi. La testa è conica, con bocca terminale armata di piccoli denti. La livrea varia a seconda dell’età e del sesso. Il dorso è bluastro o grigio piombo, mentre i fianchi sono più chiari e ricoperti di una punteggiatura bianca o giallo crema, alle volta rosata. Assenti le vermicolature. Il ventre è bianco ma si colora di rosso intenso nei maschi durante il periodo degli amori. Le pinne sono grigio-giallastre la dorsale e la caudale, marcatamente bilobata, mentre le pettorali, le ventrali e l’anale sono di colore arancione, con una bordatura bianca. Le taglie massime variano molto a seconda dell’habitat e dei ceppi. Le popolazioni dei piccoli invasi alpini d’alta quota difficilmente superano i 30 cm di lunghezza totale e soffrono spesso di nanismo, mentre quelle che vivono nei laghi prealpini possono arrivare anche a 70- 80 cm e 7- 8 kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

Il salmerino alpino è specie tipica di acque fredde (residuo glaciale) e profonde, che colonizza  sia piccoli specchi d’alta quota (alcune popolazioni sono presenti in piccoli laghetti del Trentino), sia laghi grandi e profondi (Lago d’Iseo). L’alimentazione è improntata soprattutto all’assunzione di invertebrati di fondo, ma anche alla predazione nei confronti di piccoli pesci. La deposizione delle uova avviene su fondali sassosi durante i mesi tardo autunnali ed invernali. La maturità sessuale, come nella maggior parte dei salmonidi, viene raggiunta tra il secondo ed il terzo anno d’età. Soffre la competizione di salmonidi alloctoni, in particolar modo della trota iridea, introdotti artificialmente negli ecosistemi d’alta quota per incrementarne la pescosità.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie è autoctona del centro-Nord Europa, sia con popolazioni stabili, stanziali,  che anadrome (Nord), che risalgono i fiumi per la riproduzione. In Italia il salmerino alpino è autoctono in Trentino Alto Adige, mentre in  Regione è stato introdotto con successo nel dopo guerra nel Lago Santo Parmense dove è tutelato con una misura minima di 25 cm . E’ assai apprezzato per la bontà delle sue carni. Una specie simile, ma di origini Nord americane, è il salmerino di fonte (Salvelinus fontinalis), specie allevata, al pari della trota iridea, ed assai vorace. Ha un corpo più tozzo rispetto a quello del salmerino alpino e la testa più grande ed appiattita. Anche la livrea è piuttosto differente, essendo caratterizzata dalla presenza di vermicolature giallastre sul dorso e sulla pinna dorsale e caudale. Presenta inoltre una punteggiatura giallastra e piccoli punti rossi circondati da alone blu sui fianchi. Le pinne ventali, pettorali ed anale hanno una doppia bordatura, bianca e nera.

Famiglia: Siluridae

Nome comune: Siluro

None scientifico: Silurus glanis (Linneo, 1758)

Famiglia: Siluridae

Ordine: Siluriformes

Origini: Specie alloctona di origini centro-est europee ed asiatiche, introdotta nel bacino padano verso la fine degli anni sessanta, oggi ampiamente acclimatata.

 

Descrizione:

Specie di grandi dimensioni, in grado di raggiungere nei paesi d’origine (bacino danubiano) i 4 m di lunghezza totale ed il peso di oltre 250 Kg .

Il corpo è anguilliforme, privo di squame, con una livrea marmorizzata, tendente al verde oliva sul dorso ed al bianco-giallastro sul ventre.

La testa è grande ed appiattita, con bocca mediana ampia, dotata di tre paia di barbigli di differente lunghezza.

Numerosissimi i denti (raspanti), di piccole dimensioni, distribuiti sia sul palato che sulle robuste mascelle.

Caratteristiche sono le pinne, in particolare sono molto piccole le pettorali, la dorsale e la caudale, quest’ultima con bordo arrotondato, mentre l’anale è assai lunga sviluppata.

 

Comportamento:

Il siluro colonizza acque a lento decorso, con fondali limosi e sabbiosi, dei grandi fiumi di pianura, come nel caso del Po e dei suoi maggiori tributari, ma non disdegna neppure di entrare nei canali di bonifica, dove trova un habitat ideale per l’accrescimento.

Si tratta di una specie ittiofaga altamente infestante, in grado di cagionare seri danni alla fauna ittica.

Infatti, mentre i giovani sono onnivori e si nutrono principalmente di invertebrati, di anellidi e di molluschi, gli adulti si comportano da predatori opportunisti, alimentandosi con tutto ciò che l’ambiente mette a disposizione, non disdegnando prede di grandi dimensioni, ivi compresi piccoli roditori ed uccelli acquatici.

In molti casi il siluro è stato co-responsabile della scomparsa di alcune specie caratteristiche del bacino padano, per tali motivi la specie è oggetto di campagne di bonifica e di contenimento da parte della Regione Emilia-Romagna.

La riproduzione è tardo primaverile e la ovodeposizione avviene in acque basse ricche di vegetazione.

 

Distribuzione e diffusione:

La specie è particolarmente diffusa nell’Europa dell’Est, mentre in Italia si è favorevolmente insediata nel bacino del Fiume Po, dove il siluro ha trovato condizioni assai vantaggiose: gli accrescimenti risultano infatti migliori rispetto a quelli dei paesi d’origine.

Nel territorio provinciale il siluro è diffuso, oltre che nel Po, nei canali di bonifica, soprattutto in prossimità delle chiaviche e delle botti sifone: alcuni  interventi effettuati per opere di manutenzione dei canali hanno condotto negli ultimi anni al recupero e alla bonifica di diversi quintali di siluri, con conseguenze favorevoli per la fauna ittica che ne condivideva l’ahabitat.

Il siluro è piuttosto apprezzato sotto l’aspetto alieutico, viene infatti insidiato con attrezzature robuste, sia con esche vive (anguilla) e morte (interiora), che a spinning con pesanti cucchiani ondulanti, anche dalla barca.

Frequenti sono le uscite di pesca sul Po da parte di appassionati d’oltralpe (in particolar modo pescatori austriaci e tedeschi) che danno luogo ad un vero e proprio fenomeno d’escursionismo per pesca.

Famiglia: Cyprinidae

Nome comune: Tinca

None scientifico: Tinca tinca (Linneo, 1758)

Famiglia: Cyprinidae

Ordine: Cypriniformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Corpo massiccio, compresso lateralmente, ricoperto di piccole squame cicloidi.

La livrea varia dal verde bottiglia del dorso, marcatamente arcuato, e dei fianchi al giallo del ventre.

Le pinne, robuste e tozze, sono nerastre. La bocca è terminale, carnosa e dotata di due barbigli di piccole dimensioni. La pinna caudale ha il bordo poco inciso; quelle ventrali sono  decisamente più sviluppate nei maschi (dimorfismo sessuale). Le taglie massime raggiungibili sono di circa 50- 55 cm di lunghezza totale e di 2- 4 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

Si tratta di una specie fitofila, che colonizza acque a lento decorso, spesso stagnanti (zona a tinca) ma ricche di vegetazione.

Tollera basse concentrazioni di ossigeno disciolto ed elevate temperature, tuttavia necessita della presenza di fanerogame acquatiche per ancorarvi le uova (adesive, come le larve), durante la fase riproduttiva (maggio-giugno).

La maturità sessuale viene raggiunta tra il terzo ed il quarto anno di età.

Si tratta di una specie onnivora, che si nutre prevalentemente di larve di inverterbrati acquatici, di anellidi, molluschi e vegetali.

 

Distribuzione e diffusione:

Diffusa in tutta Europa, in Italia è presente con popolazioni autoctone in fase di contrazione.

In particolare, nelle acque regionali e provinciali la tinca appare in fortissima rarefazione, sia a causa delle difficoltà riproduttive ed alimentari dovute alla riduzione della vegetazione acquatica (sfalcio), sia a causa della predazione-competizione esercitata dalle specie aliene, in particolar modo da parte del siluro.

In provincia di Reggio Emilia la specie è discretamente diffusa nei Laghi Cerretani, nel Lago Calamone e  in alcuni piccoli invasi collinari, mentre è  quasi scomparsa dalle aree planiziali (canali di bonifica, lanche e bozzi) che un tempo la ospitavano numerosa.

Tentativi di reintroduzione, sia con novellame che con soggetti adulti, hanno fornito risultati poco incoraggianti.

La specie è localmente tutelata con una misura minima di 30 cm (1 solo esemplare per giornata di pesca), mentre il periodo di divieto è quello stabilito dalla normativa regionale (dal 15/5 al 30/6).

Famiglia: Salmonidae

Nome comune: Trota fario

None scientifico: Salmo trutta trutta (Linneo,1758)

Famiglia: Salmonidae

Ordine: Salmoniformes

Origini: specie autoctona

 

Descrizione:

Corpo allungato ed affusolato, lateralmente compresso, ricoperto di piccole squame cicloidi. La testa è piuttosto grande, specie nei soggetti maschi, con bocca terminale armata di piccoli denti aguzzi, presenti sulle mascelle, sulla lingua e sul palato. La livrea è assai variabile, in dipendenza sia dell’habitat che del ceppo di appartenenza. La trota fario è infatti una specie polimorfa e politipica, presente nelle acque interne italiane (correnti ma anche lacustri) sia con popolazioni autoctone, di ceppo mediterraneo (macrostigma), sia con popolazioni originarie del centro-Nord europa (ceppi atlantici), introdotte con i ripopolamenti.  Mentre le prime presentano generalmente una punteggiatura fine e fittamente distribuita sui fianchi, di colore rosso, ruggine e/o nera, con bande trasversali scure (parr) anche nei soggetti adulti e macchia nera preopercolare, le seconde hanno di solito una punteggiatura più grossolana (rossa e nera), spesso con alone bianco e mancano sia delle bande parr che della macchia preopercolare. Naturalmente vi sono popolazioni –spesso le più frequenti- costituite da soggetti ibridi, con caratteristiche intermedie tra quelle descritte. Le analisi genetiche possono, in parte, dirimere i dubbi sul ceppo di appartenenza. Differenti sono pure gli accrescimenti e le dimensioni raggiungibili. Le fario mediterranee, molto più esigenti ecologicamente, difficilmente superano i 50 cm di lunghezza totale e 1- 2 Kg di peso corporeo, mentre gli esemplari di ceppo atlantico, soprattutto le forme che vivono nei laghi o nei grandi corsi d’acqua del Nord, possono superare i 70 cm di lunghezza totale e 7- 8 Kg di peso corporeo.

 

Comportamento:

La trota fario è il tipico salmonide delle fredde acque torrentizie montane, anche se la si ritrova pure nel fondo valle dei corsi appenninici ed alpini e nei laghi, sia d’alta quota che nei grandi bacini prealpini, dove è presente con forme stanziali (ecotipo lacustre). Si tratta di un salmonide perfettamente integrato nell’ecosistema torrentizio, mal tollerando temperature superiori ai 18- 20 °C e basse concentrazioni di ossigeno disciolto. Gli esemplari di fario più grandi e vecchi sono territoriali ed aggressivi: occupano le posizioni migliori nella buca del torrente, da dove  scacciano gli intrusi, anche se appartenenti alla stessa specie, divenendo perfino cannibali. La dieta della trota fario è assai varia, spaziando dai macroinvertebrati bentonici agli anellidi, dai piccoli pesci (vaironi, sanguinerole, scazzoni) agli insetti adulti alati. La riproduzione è tardo autunnale-invernale. Le popolazioni appenniniche si riproducono nei mesi di dicembre e di gennaio. La femmina depone le uova (ca.1.500-2.000/Kg di peso corporeo)  di grandi dimensioni (4,5- 5 mm) in una buca scavata con la coda, dove vengono fecondate da uno o più maschi e poi ricoperte di ghiaia. La maturità sessuale viene raggiunta tra il secondo ed il terzo anno di vita a taglie corporee assai variabili a seconda dell’habitat e delle disponibilità trofiche.

 

Distribuzione e diffusione:

La trota fario è presente in Europa, sia con popolazioni stanziali (trota di fiume e trota di lago), sia con popolazioni migratrici anadrome (trota di mare). In Italia la specie, che riveste un altissimo interesse per la pesca dilettantistica, è autoctona nell’arco alpino occidentale e nell’Appennino settentrionale, con ceppi mediterranei, salvaguardati con programmi finalizzati al loro mantenimento/incremento mediante la riproduzione controllata negli incubatoi di valle. La nostra Provincia è stata pioniera per queste iniziative. Tuttavia i ripopolamenti effettuati con materiale zootecnico di origine continentale europea hanno in parte stravolto l’originaria identità di buona parte delle popolazioni italiane in seguito a  fenomeni di ibridazione. La trota fario è tutelata dalla Regione Emilia-Romagna con una misura minima di 22 cm ed un periodo di divieto di pesca dalla prima domenica di ottobre all’ultima domenica di marzo. E’ possibile  trattenere 5 esemplari per giornata di pesca. Localmente, soprattutto nelle Zone a Regime Speciale di Pesca (ZRSP) della Provincia di Reggio Emilia, le misure minime adottate sono in genere più elevate  ed è inferiore il numero degli esemplari che si possono trattenere, per cui si raccomanda attenzione nel consultare i regolamenti.

Specie simile alla trota fario, ma in grado di raggiungere dimensioni notevolmente maggiori, è la trota marmorata, Salmo (trutta) marmoratus, Cuv, salmonide tipico dei grandi corsi d’acqua del Nord, affluenti di sinistra del Fiume Po. Caratterizzata da una corporatura più slanciata e da una testa più lunga e grande rispetto a quella della trota fario, la trota marmorata ha una livrea caratteristica, con assenza di punti e presenza di una marmorizzatura diffusa sui fianchi e sul dorso. Macchie isolate sono invece presenti negli esemplari ibridati con la trota fario, con la quale contrae ancora rapporti di tipo riproduttivo, soprattutto laddove quest’ultima viene immessa per favorire l’attività alieutica. La trota marmorata raggiunge taglie corporee assai elevate, potendo superare il metro di lunghezza ed i 15 Kg di peso corporeo. La sua alimentazione, a partire dal quarto-quinto anno d’età, diviene ittiofaga. Viene insidiata sia con la tecnica del pesce morto sia a spinning con voluminosi artificiali. Programmi di tutela sono intrapresi da diverse regioni del Nord per la salvaguardia della sua identità genetica. La specie è in genere protetta con misure minime elevate (40- 45 cm di LT).